Figli, figliastri e protégé: è il Cinema Italiano

La polemica sollevata da Pierfrancesco Favino durante l’ultima edizione della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia ha scatenato reazioni più o meno pacate sia da parte della stampa che dei professionisti del settore.

Per chi non avesse seguito la vicenda, l’attore italiano ha puntato il dito contro l’ultimo film di Michael Mann, Ferrari, denunciando la pratica, a suo dire ingiusta e vergognosa, di utilizzare attori stranieri per interpretare dei personaggi tutti italiani (come era già successo in tempi recenti in House of Gucci di Ridley Scott).

E se da un lato c’è chi ha dato man forte al ragionamento di Favino, adducendo alla questione cause più o meno condivisibili – ne è un esempio la dichiarazione dell’attore Mads Mikkelsen che dà la colpa alla pratica del doppiaggio, che continua ad essere ricorrente così in Italia come in Francia, Germania e Spagna – dall’altro c’è chi gli risponde per le rime come nel caso di Gabriele Muccino, che fa un elenco di casi più o meno recenti in cui grandi maestri del cinema nostrano (Bertolucci, Visconti e Scola, per fare qualche nome) si sono serviti di attori stranieri per interpretare personaggi più che italiani, giustificando e sostenendo la scelta per una semplice e condivisibile questione di marketing.

La risposta che però centra più il segno è quello dell’italo-canadese Andrea Iervolino, CEO del Gruppo ILBE e produttore del film Ferrari che scrive:

“Caro Favino, negli ultimi trent’anni, il cinema italiano non ha creato uno star system riconoscibile nel mondo, nonostante siano presenti sul panorama italiano moltissimi attori di eccellente professionalità, restando chiuso a collaborazioni internazionali che in un mondo globale ritengo al contrario utili alla crescita del settore. Gli altri Paesi non americani hanno avuto invece un approccio diverso e forse vincente dando vita e luce a: Banderas, Bardem, Cruz, Cassel, Cotillard, Kinnaman, Mikkelsen, Schoenaerts, Kruger che sono oggi nomi internazionalmente riconosciuti con un notevole e comunque discreto valore. […] bisogna fare film internazionali, inserendo nel cast un mix di attori stranieri e nostrani. Solo così i talenti italiani, che sono tantissimi e non tutti ancora scoperti, possono iniziare ad avere visibilità a livello mondiale per poi essere protagonisti dì film che potrebbero costare intorno ai 100.000.000 di dollari come Ferrari».

A supporto della tesi di Iervolino citiamo il recente caso di Sabrina Impacciatore: già da tempo celebre in Italia, è però riuscita a raggiungere la fama a livello internazionale soltanto grazie al grande successo della serie HBO The White Lotus.
Mettendo però da parte lo specifico discorso di Favino – che fa eco alle ben più ridicole polemiche tutte americane sulle modalità rappresentative delle minoranze al cinema secondo cui, per fare un esempio, solo attori omosessuali potrebbero interpretare personaggi omosessuali – quello che emerge dai vari botta e risposta, dai numerosi articoli e dalle testimonianze lette ed ascoltate in questi giorni è che la produzione audiovisiva italiana è fossilizzata su schemi produttivi e strategie distributive vecchie quasi un secolo.
A differenza infatti delle altre centrali produttive Europee, ovvero Francia, Spagna e Germania (lasciamo fuori dall’equazione l’Inghilterra per ragioni più che palesi), che hanno saputo negli ultimi anni ritargliarsi, chi più chi meno, uno spazio nel panorama distributivo mondiale anche grazie all’avvento delle piattaforme di streaming, l’Italia risulta anchilosata ad un cinema che ha ancora fin troppe similitudini e punti di contatto con i generi che si sono sviluppati nel primo dopoguerra, primo fra tutti la commedia all’italiana.

Gran parte delle produzioni italiane sono infatti vittima di un provincialismo sistemico che, sin dal loro concepimento, ne compromette qualsiasi tipo di risonanza internazionale. A salvarsi da questo confino distributivo sono i film d’autore, la cui forza trainante risiede nei grandi nomi del nostro cinema – sempre più vecchi e sempre meno numerosi – e alcuni prodotti “stereotipo” che trasformano la decadenza italiana in affascinante cartolina o mito culturale.
Il dato che rende questa pigrizia produttiva e nazionalpopolare indigesta sono i numeri al botteghino. Malgrado l’insistenza con cui si continui a puntare su prodotti riciclati e derivativi, lo spettatore italiano, grazie soprattutto alle infinite possibilità che offrono le piattaforme di streaming, non sembra più disposto ad accettare prodotti narrativamente vetusti e di scarsa qualità. Il risultato è che la maggior parte dei prodotti italiani usciti in sala non riescono neanche lontanamente a pareggiare i propri costi di produzione. Per fare due esempi: l’incasso internazionale di Un matrimonio mostruoso di Volfango De Biasi ammonta ad oggi a $187,4741 mentre Rido perché ti amo di Paolo Ruffini è riuscito a fare anche peggio con un incasso complessivo di $59,5452 nonostante i film abbiano avuto budget produttivi più che milionari.
I due esempi citati rappresentano il corto circuito generato dalle logiche produttive italiane: da un lato si cerca di produrre dei film “matematicamente” di successo affidandosi a sedicenti formule cinematografiche più o meno di efficaci, servendosi spesso e volentieri di interpreti che dovrebbero avere grande presa sul pubblico; dall’altro i continui insuccessi al botteghino e le ingenti perdite non sono capaci di dar vita ad un significativo cambio di rotta.
A voler essere malpensanti, questa difettosa logica imprenditoriale denuncerebbe dei meccanismi criminali in cui, cannibalizzati i fondi produttivi, vengono volutamente ignorati i risultati economici e il successo generale dei film. Il fine non sarebbe quindi quello di ottenere il successo con film di qualità quanto quelli di avere le carte in regola per riuscire ad essere finanziati.
Plausibile è invece una diffusa impreparazione rispetto ai gusti dello spettatore moderno e ai mercati globali, in cui il successo al botteghino si manifesta casualmente e sempre più di rado. Nelle maldestre prove di svecchiamento del cinema contemporaneo vengono nuovamente usati meccanismi e processi che finiscono per essere dei meri rigurgiti tematici o ciclicità storiche. Ne è esempio l’attuale trend di servirsi di cantanti famosi per trainare al successo produzioni più o meno importanti: Emma Marrone ne Gli anni più belli o Il ritorno, Elodie ne Ti mangio il cuore e Sangiovanni in Vita da Carlo 2 (ndr. È curioso notare come i tre cantanti presi in esempio provengano tutti dalla “scuderia” di Maria De Filippi), che fa concettualmente eco ai musicarelli3 degli anni 60.
Allo stesso modo e parallelamente, la figura del regista in Italia sta diventando sempre di più un titolo-orpello: un ruolo completamente svuotato del suo intrinseco significato e della sua imprescindibile importanza e trasformato in mero e ulteriore strumento di marketing. Si assiste quindi alla produzione di progetti la cui regia è affidata a personalità di spicco non necessariamente vicine al mondo del cinema.

Come fare dunque per cambiare le sorti del cinema italiano?
Dall’esterno, il cinema in Italia – inteso nella sua accezione di grande meccanismo industriale di produzione cinematografica –  appare un universo chiuso e impenetrabile: una lobby tentacolare dalla strutturazione massonica che non ammette interferenze esterne. Salvo casi particolari, ad andare avanti sembrano essere quelli che hanno ottenuto un invisibile sigillo di investitura o, ancor meglio, che siano nati sotto la buona stella (ed il giusto cognome). Per tutti gli altri occorre una titanica fatica: oltre al talento, astute genuflessioni e un grossissimo quantitativo di fortuna sono i termini minimi per avere anche solo un piccola possibilità di farsi largo in questa industria corrotta e allo sfacelo.

I set in Italia sono infatti fortini inespugnabili, enclavi elitarie dove si entra quasi esclusivamente per raccomandazione, dove figli, figliastri e protégé vengono piazzati in slot riservatissimi e a loro sempre disponibili, dove per chi non è nessuno o non appartiene a nessuno non si trova mai posto.

Chi però decide di percorrere una strada alternativa, fatta di cinema indipendente e di miseria,  è costretto a confrontarsi con delle difficoltà spesso insormontabili che si concludono il più delle volte in un nulla di fatto. La ricerca di un produttore è fondamentalmente impossibile senza un contatto diretto. I fondi statali tendono a premiare quelle multimilionarie produzioni che poi, come abbiamo visto, collassano ai botteghini al posto di essere propellente per nuove coraggiose forme di cinema e nuovi giovani autori. Nemmeno avere nelle mani un film finito equivale ad avere una possibilità di entrare a far parte del meccanismo, dovendosi anche lì confrontare con la necessità di far parte di una serie di vetrine di rilevanza quantomeno nazionale. Perché allo stesso modo, il sistema festivaliero – fortunatamente non in tutte le sue espressioni grazie ai festival indipendenti – appare inoculato di quella corruzione e quello strategico posizionamento di nomi e personalità di comodo che servono per alimentare un sistema clientelare fatto di favoritismi e scambi e la cui matrice sembra ricordare il nostro sistema politico-amministrativo.

Mentre scrivo queste righe Enea, il secondo lungometraggio di Pietro Castellitto – figlio di Sergio Castellitto e Margaret Mazzantini – è in concorso all’80esima Mostra del Cinema di Venezia, lì da dove siamo partiti. Sarebbe intellettualmente disonesto non riconoscere a Castellitto i suoi meriti, tuttavia non è fargli torto se capita di chiedersi in che misura la sua carriera sia stata spianata dal fatto che ha avuto la fortuna di nascere nella famiglia giusta. Mettendo da parte qualsivoglia giudizio qualitativo sul film – del resto sarebbe impossibile per chi non ha avuto la possibilità di vederlo in anteprima a Venezia in questi giorni – è indispensabile, mai quanto oggi, chiedersi quali possibilità offre il cinema italiano ai giovani autori, alla generazione di registi e attori di cui dovrebbe fare parte lo stesso Castellitto ma di cui esistono pochissimi, sparuti rappresentanti. Cosa sta facendo il cinema italiano, o meglio, cosa stanno facendo le persone che ne decidono le sorti per quei registi e quegli attori che dovrebbero rappresentare il nostro paese nei prossimi anni?

Chiediamoci: quanti giovani autori ci sono in Italia che però non riescono nemmeno a mettere anche solo un dito all’interno dell’industria cinematografica italiana, quantomeno per iniziare la quanto mai anacronistica (e anche un po’ fascista) gavetta? Possibile che il talento sia un fattore puramente ereditario?

La verità è che oggi il cinema in Italia è sempre meno proletario e sempre più borghese, sempre meno comunitario e sempre più elitario, sempre meno libero e sempre più vincolato a fallimentari processi economici, sempre meno artistico e sempre più di maniera, sempre meno meritocratico e sempre più onanistico. Affinché cambi il cinema occorrerebbe una vera e propria rivoluzione culturale che ne scardini i venefici e vetusti meccanismi, riformandone profondamente la struttura. Occorre che ognuno di noi faccia la sua parte, sia chi di cinema ne scrive e basta, sia chi col cinema ci lavora o che vorrebbe farlo. Occorre che le verità note a tutti ma appena sussurrate, in fila per una proiezione ai festival o mentre si lavora sui set, venissero a galla. Occorre che il cinema torni a essere il Cinema.

(Nella foto, Pierfrancesco Favino in una scena del film “Comandante” di Edoardo De Angelis)


1Dati della piattaforma Box Office Mojo
2Rido perché ti amo
3Sottogenere che consisteva nel mettere in scena film tratti da canzoni di successo provenienti solitamente dal festival di Sanremo e facendoli interpretare da chi li cantava

 

Etrio Fidora

Direttore responsabile