Fuga da Barbieland
La spicciola dicotomia tra l’immaginaria Barbieland e la reale Los Angeles diventa il fulcro di una narrazione che si trasforma molto velocemente in una didascalica denuncia sociale in cui viene contrapposto un femminismo salvifico ad un becero maschilismo patriarcale.
Il mondo cromaticamente ipersaturo e plastico creato dai coniugi Gerwig – Baumbach, come del resto confermato dal successo ai botteghini di tutto il mondo (in Italia al 21 di Luglio Barbie in prima posizione al botteghino incassa €1.808.881 contro i €169.352 dell’ultimo capitolo di Mission Impossible che lo precede in seconda posizione), ha tutte le carte per essere un film di grande successo: un cast stellare – oltre ai protagonisti Margot Robbie e Ryan Gosling, Will Ferrell, Michael Cera, Simu Liu, America Ferrara e i cameo di Dua Lipa e John Cena – un comparto tecnico di altissimo livello, una storia incardinata all’interno del sempre più feroce dibattito in atto tra maschilismo e femminismo, un brand iconico di portata mondiale, ma soprattutto una campagna di marketing che ha saputo servirsi perfettamente di tutti gli strumenti dell’universo digitale per trasformare un semplice film in un meme cinematografico.
Un evento globale a cui partecipare obbligatoriamente per poter far parte di un trend di mastodontiche dimensioni che ha tutto il sapore di un vero e proprio happening (uno specifico dress code per le proiezioni, lo schierarsi attivamente nel gioco-scontro con Oppenheimer, l’ultimo film di Christopher Nolan in uscita nello stesso periodo seppur non in Italia). Nonostante però tutti questi ingredienti abbiano un intrinseco e specifico valore, il risultato finale si è rivelato ben lontano dalle aspettative di chi scrive.
La spicciola e più che superficiale dicotomia tra Barbieland – mondo immaginario e di discutibile perfezione in cui vivono in armonia tutti le Barbie e i Ken – e Los Angeles – qui a rappresentazione del mondo reale -, che viene allo stesso modo trascritta nel film in una altrettanto superficiale e a tratti imbarazzante rappresentazione dei due sessi – diventa il fulcro di una narrazione che, tra momenti di genuina ilarità, omaggi cinematografici molto ben costruiti, e citazioni della cultura pop alle volte fin troppo marcati o gratuiti, si trasforma molto velocemente in una didascalica denuncia sociale in cui viene contrapposto un femminismo salvifico ad un becero maschilismo patriarcale.
A contrasto quindi di una pedissequa glorificazione della donna troviamo la totale messa in ridicolo dell’uomo che, per tutta la durata del film, non trova dignitosa rappresentazione se non in sparute e ridicolizzate ma allo stesso tempo lucidissime battute di Ryan Gosling.
Il vogleriano viaggio dell’eroe intrapreso da Margot Robbie diviene un viaggio sulla consapevolezza di sé – la specifica Barbie Robbie – ma mai sulla consapevolezza reale dell’essere simbolo – la Barbie Stereotipo – né dell’essere donna. Nel film della Gerwig non c’è quindi spazio per una reale e auspicabile presa di coscienza sulle necessità di trovare un giusto equilibrio di potere tra i sessi ma soltanto la difesa di un immaginario status quo, che si manifesta nel potere delle Barbie sui Ken in Barbieland e nella denuncia dello strapotere maschile e del patriarcato nel mondo reale.
Barbie è quindi un film che al posto di cercare di trasformare ed edificare una nuova società, dei nuovi equilibri grazie ad una più che condivisibile trasformazione sociale, si adagia sulla facile denuncia sociale, mettendo in scena in maniera del tutto superficiale e didascalica un semplicistico gioco di inversione dei ruoli.
[nella foto di copertina, Ken (Ryan Gosling) e Barbie (Margot Robbie) in una scena del film]