Eldo che ha sorriso alla morte

Eldo Lauriano e il suo clarinetto

La morte conferma di essere mostruosamente banale. E che ci voleva a prendersi uno come Eldo
che l’avrà incontrata chissà quante volte e magari le avrà pure sorriso. Non per coglionaggine o
spavalderia, ma perché non l’avrà riconosciuta. Capita alle anime belle di non potere pensare che
esista qualcosa di opposto alla vita, che ne mortifichi la natura e ne prosciughi l’essenza. Eldo era
un’anima bella, per forza così dev’essere andata.
Non sa la morte che del nostro amico s’è portato niente più che ossa e carne, mentre il resto rimane
con noi. Tanti piccoli frammenti che ci toccherà rimettere assieme, un patchwork di ricordi di varie
stagioni della nostra esistenza di cui Eldo è stato inconsapevole protagonista. Ruolo a cui non ha
mai aspirato, scansandone le responsabilità, scegliendo per sé quella posizione defilata che gli ha
consentito di abbaiare alla luna ogni qual volta volesse, senza chiedere permesso a nessuno, senza
scodinzolare, modellando la propria esistenza sulle note che gli erano più congeniali. Che poi,
essendo quelle del genio puro, a volte potevano sembrare fuori tempo. E molte volte lo sono anche
state. Ma essere contemporanei – che pure per alcuni è un pregio – costringe talvolta a rinunciare ai
sogni, essere disponibile ai piccoli compromessi o, all’estremo, a mettere nel tritacarne speranze e
ambizioni, sacrificio che proprio non gli si poteva credere.
Eldo non è diventato così – che pure la Palermo degli anni ’70 nelle cui viscere siamo cresciuti,
indicava proprio quel percorso quale strada quasi obbligata – Eldo c’è nato. Glielo leggevi negli
occhi – luce perpetua di una faccia che sembrava concepita da Dalì – che la normalità non l’avrebbe
spuntata e che la vita, lunga o breve che fosse, era cosa di sua pertinenza, resa impermeabile ai
capricci del destino per scelta.
Santo non è stato mai e peraltro non era la sua aspirazione. Ma neanche diavolo a dispetto di tutti
quei benpensanti di pari età resi ancora più livorosi da un’adolescenza trascorsa ai margini. Ai
margini di che? Di quel pezzo di gioventù che costituiva la parte più creativa di Palermo e che ha
pagato un prezzo altissimo per essere stata lasciata sola e isolata. Da un lato i figli della borghesia
che già pensavano alle scorciatoie più opportune per la loro esistenza; dall’altro il moralismo da
quattro soldi delle due chiese imperanti, tra falce, martello e scudi crociati. E in mezzo un drappello
di sognatori che non predicava rivoluzioni ma cercava, spesso attraverso musica e teatro, la salvezza
delle loro anime.
Il loro palcoscenico naturale era Villa Sperlinga, tempio laico e talvolta lisergico di quella
generazione di mezzo tra le utopie del ’68 e gli anni di piombo, apparentemente ghetto, in realtà
rifugio, oasi, cantuccio, persino coperta di Linus con la quale avvolgere paure e incertezze. Quel
luogo che il potere ammantato da falsa devozione ha voluto sfregiare con la statua di un santo, rito
più pagano che sacro che ha inteso profanare la memoria di un luogo.
I miei frammenti di Eldo partono anni prima, avevamo i pantaloni all’inglese, mal sopportati da
entrambi in quelle serate del sabato sera fatte di canzonissime e giochi di società, di mamme e papà
impegnati in discussioni seriose che il wishky rendeva sorridenti. Da lì sino ai primi piccoli drammi
sentimentali, le prime sigarette, le divergenze musicali che solo il prog metteva d’accordo, merito
dei Gong e degli Henry Cow. Poi tanti periodi di vuoto, strade diverse, città diverse, il tempo di un
diverso che prevale sull’uguale. Vengono in mente giorni e parole, un impasto di nostalgia che oggi
è soprattutto fatto dell’assenza di suono, della sua voce e dei suoi strumenti.
Rimane tanto non detto, ma senza rimpianto, perché questo è sentimento che toglie la gioia del
ricordo e questo sì che sarebbe il trionfo della morte puttana. Meglio un sorriso, Eldo. Molto
meglio.


Oasi (Eldo Lauriano) – Kale Akte in concerto: Eldo Lauriano, clarinetto; Maurizio Curcio, piano