“Quelli erano giorni”, una testimonianza sulla guerra e la prigionia nel libro di Romeo Vernazza
Un libro che è un testamento sugli orrori della guerra e della deportazione, così può definirsi il romanzo di Romeo Vernazza, che parla in prima persona, nel nome del padre. Tempesta editore lo ha pubblicato e ha dato dignità a parole che non dovremmo dimenticare, specie in questi tempi.
Per ironia della sorte in un palazzo genovese in cui risiede l’associazione mutilati di guerra c’è una frase di Benito Mussolini. La guerra è una lezione che gli uomini non imparano mai abbastanza. Con che mutilazioni emotive, tuo padre ti ha raccontato ciò da cui è nato il libro “Quelli erano giorni”?
Chi vive esperienze di violenza e privazione della libertà diventa un sopravvissuto di se stesso, del suo essere di allora che non c’è più. Si è altro, dopo, spesso senza volerlo o capirlo. Mio padre e molti altri ex internati sono riusciti a trasformare le ferite della sofferenza in forza. Forza di vivere, equilibrio, calma, assennatezza. Già prima dell’esperienza della guerra e della prigionia, papà era un uomo tranquillo e posato. Veniva da una povera famiglia di mezzadri, terzo di dieci figli; da bambino aiutava nel terreno e a dodici anni era già a lavorare. La guerra lo rese probabilmente ancora più riservato e poco espansivo. Il suo dopoguerra non fu l’occasione per ripensare la propria vita ma il tentativo di riprenderla dove era stata interrotta. Ci riuscì solo in parte, diventando non vittima ma compagno della solitudine. Non lo sentii mai, davvero mai, alzare la voce e il suo riso non era mai sguaiato Era lontanissimo dai tristi moti della vita: l’invidia, il rancore, la cattiveria. Quando c’era qualche problema non perdeva mai la calma, cercava subito la maniera di riparare la situazione, con quel pragmatismo che impari quando devi sopravvivere ogni giorno, alla fame, alla paura e alla fatica.
Dai suoi ricordi di guerra, di prigionia e di lavoro forzato non trapelava mai rancore o odio per i suoi aguzzini. Questa era la sua forza interiore che gli ha permesso di vivere in pace, scacciando le tenebre in un angolo.
Quella di tuo padre è però una deportazione “particolare”, nata per un suo rifiuto.
Già prima della guerra, giovanissimo caposquadra molto stimato in fabbrica, aveva rifiutato di iscriversi al partito fascista. Non si occupava molto di politica però i fascisti no, anche se comandavano loro, anche se la tessera del Fascio gli avrebbe probabilmente garantito privilegi e la possibilità di evitare la guerra. Il secondo rifiuto al fascismo, che pagò molto caro, avvenne nel lager, dicendo molte volte no alle proposte di arruolamento nell’esercito dei repubblichini. Il suo non fu un No isolato, anzi, ci fu un mare di No. Degli oltre seicentocinquantamila soldati italiani internati in Germania, solo qualche decina di migliaia accettò l’arruolamento, i più per non morire di fame e di stenti in Germania e con l’idea di disertare quanto prima, una volta giunti in Italia.
Come è stato parlare per lui e con lui?
Scrivevo in prima persona cercando di immaginare di pensare come lui, le sue pause, il suo tono sempre pacato, la sua leggerezza nei termini, mai un giudizio e soprattutto la sua flemma, l’approccio semplice alla vita. La terza persona mi avrebbe allontanato da lui e dal cuore del racconto. È stata un’esperienza emozionante, mi ha commosso e anche intristito molto. Stavo imparando a conoscerlo davvero quando lui ormai non c’era già più. Durante la stesura del libro e prima ancora, durante la ricerca di documenti e notizie, compresi la piena tragedia dei suoi cinque anni tra guerra e prigionia. Penso ancora ora che la maggior parte dei suoi patimenti sono morti con lui, perché se li conservò in una piega della sua anima, senza mostrarli a nessuno. Le vicende che ho descritto sono solo la punta di un iceberg di un grande tragedia, quella degli I.M.I. (gli internati militari titaliani), che sarà sempre più difficile comprendere e ricordare, perché il tempo cancella e spesso stravolge la Storia.
Quante notti insonni ha regalato negli occhi paterni tutto quello che ha visto?
La sindrome del sopravvissuto ha reso fragile una parte degli ex internati, vittime che hanno vissuto il resto della loro vita traumatizzati: notti lunghissime con la luce accesa e terribili incubi e urla di paura, senza riuscire a sopportare l’abbaiare di un cane o anche il solo sentir parlare tedesco. Per fortuna altri, come mio padre, di notte riuscivano a dormire.
C’è una frase in Viaggio al termine della notte di Céline che descrive il problema della sopravvivenza: “‘Non credete mai a prima vista all’infelicità degli uomini. Chiedetegli se riescono ancora a dormire… Se sì, va tutto bene. Basta quello”.
Mio papà Sârva aveva vinto il passato, si era ripreso la sua semplice vita, il lavoro, lo stesso di prima della guerra e poi la famiglia e i figli, e dopo la pensione e le sue partite a carte alla società di mutuo soccorso del paese.
C’è una frase che fa venire in mente “la guerra di Piero” che tuo padre disse, sull’uccidere un altro essere umano…”
Lo diceva spesso, anche mia madre lo ricorda bene: “Non ho mai ucciso nessuno in guerra, se dovevo mirare lo facevo ma poi spostavo il fucile da una parte, fuori obiettivo, e sparavo”. La sua guerra durò tre anni, in Francia, sul fronte greco-albanese e in Yugoslavia, contro i partigiani di Tito, ma quella frase la ripeteva spesso, con un leggero sorriso di soddisfazione, perché era sincero, ne sono sicuro.
Il suo patrimonio umano è continuato in te. Sei un figlio che non dimentica le radici ma che ha una sua cifra narrativa da scrittore. Raccontaci dell’esperienza di “Cuore” e dicci cosa ascolta Cenerentola.
Nel 1989, leggendo l’inserto satirico de L’Unità, capii che potevo unire il mio senso dell’umorismo e il mio giocare con le parole alla passione politica. L’amico Danilo Maramotti era già un brillante fumettista che già pubblicava su Frigidaire e su Linus. Ci trovammo subito in sintonia. I miei soggetti e testi e il suo segno grafico davvero incisivo riuscirono a raggiungere subito una cifra satirica professionale. La prima vignetta che inviammo fu subito pubblicata nel primo numero di Cuore come rivista autonoma. Da quel momento le nostre vignette firmate RVDM accompagnarono la vita del più bel settimanale di satira che vi sia mai stato in Italia. Più avanti curai per Cuore anche una rubrica, Vite di seconda mano, sul neocapitalismo dei più strani, divertenti e inquietanti annunci econimici.
Cenerentola ascolta i Joy Division è stato definito un romanzo rock sentimentale. Ha lasciato un bel ricordo in molte persone e ancora ora, a distanza di quattro anni, continua a essere richiesto e letto. Cose che scaldano il cuore, come ricevere il primo premio per la narrativa a Microeditoria 2015, proprio per quel libro di esordio, con la giovaneTempesta Editore, davanti ai libri delle migliori piccole e medie case editrici italiane di quell’anno.
Dai un messaggio a chi incautamente soffia su fuochi di violenza richiamando quei tempi oscuri.
Suggeirei a Salvini di limitare la sua cifra vanagloriosa, la sua continua esternazione dei sentimenti più bassi e deleteri. Contribuisce volutamente ad aumentare a dismisura la percezione della presenza degli immigrati in Italia, agitando un’invasione che non esiste, seminando insicurezza e odio ingiustificati. Salvini cavalca una paura che è indotta, istiga alla violenza, soffia sul fuoco del razzismo, tralasciando di risolvere i veri problemi del paese. Ho una grande paura che le masse intolleranti diventino sempre meno controllabili. La Lega e anche i Cinque Stelle stanno demolendo il senso della dignità dello stato, dei suoi rappresentanti, le basi stesse della democrazia, aiutati in questo anche da decenni di cattivi esempi della vecchia politica e dalla decadenza della Sinistra. E poi mi fa davvero tristezza vedere persone giovani che esternano ammirazione verso Mussolini, un dittatore che annullò la democrazia e trascinò il nostro Paese in una guerra rovinosa, provocando così tante morti e distruzioni. Dimenticando la Storia finiremo per commettere di nuovo le stesse follie e forse è questo il nostro destino: morire senza imparare mai nulla.
Per ora chi ama perdutamente Genova ha un cuore in parte crollato. Credi come me che questa città abbia un amore diverso e sviscerato che la fa agire con gesti concreti piuttosto che piangersi addosso?
L’Italia nei momenti drammatici rivela realtà locali vive e pulsanti. Genova, al di là dei luoghi comuni, in quei casi ha sempre mostrato generosità e volontà di risorgere. Ricordo qualche anno fa il lavoro degli angeli del fango durante le ultime alluvioni. La solidarietà dimostrata dai cittadini anche dopo il crollo del ponte Morandi è il segnale tangibile che esiste ancora una società civile che lavora e resiste, al di là dell’egoismo e dell’intolleranza.
Genova è una città bellissima e unica, è amore e caos, fuoco e acqua, forza e malinconia.
Che progetti hai di nuova scrittura?
In una realtà sempre più indifferente o ignorante verso il passato, anche recente, credo che sia importante mettere in luce le vicende di gente comune all’interno di un quadro storico credibile. Il mio Quelli erano giorni è stato un tentativo in quel senso e mi fa piacere sentire che diversi insegnanti lo usano come lettura nelle scuole. Sto raccogliendo molte informazioni e immagini su famiglie, luoghi e attività ormai scomparse. Il periodo storico dalla metà dell’Ottocento alla metà del Novecento è stato un susseguirsi vorticoso di cambiamenti davvero epocali. È come se dopo millenni di buio si fosse accesa una luce accecante. Trovo interessanti i contrasti tra il nuovo che cambiava letteralemente il mondo e l’antico che cercava di resistere con le sue tradizioni millenarie. Sono quelle azioni e reazioni drastiche che mi piacerebbe far rivivere.
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