Trajkovski con il numero 10: non c’è più religione. Viaggio nel tempo con i campioni tutto genio e sregolatezza

Il numero 10 è uno dei simboli storici del calcio che sopravvive alla deriva delle finte trasformazioni. Uno dei pochi. Si parla del 10 per trasferire l’idea del genio, del campione a cui è perdonato disordine tattico e agonismo a rate in cambio di quelle giocate che da sole valgono il prezzo del biglietto. Si parla del 10 anche quando il nostro beneamato magari sulle spalle porta la numero 20, come Franco Vazquez, l’ultimo degno erede della tradizione di casa nostra.

Palermo di 10 ne ha conosciuti diversi, alcuni di stile classico, mezze punte, magari un po’ segaioli, ma capaci di mozzarti il fiato e lasciarti schiavo d’ammirazione; altri a cui mancavano le caratteristiche del ruolo, però ampiamente compensate dal bastimento di genialità che nel gergo si chiama ignoranza. Pensiamo a Miccoli, attaccante purissimo a cui non faceva difetto il genio e neanche l’ignoranza: con il 10 alla Rivera non c’entra nulla, ma vogliamo negargli l’appartenenza alla categoria? Magari 10 ad honorem.

Della nostra storia recente fa parte anche Javier Pastore, sulle spalle portava il 27 pur avendo le movenze da 10. Impiegò qualche mese prima di levarsi di torno la concorrenza Fabio Simplicio, un brasiliano furbo a cui proposero, in virtù della sua classe e del suo passaporto, la maglia più impegnativa di tutta la squadra. Simplicio rifiutò, per scaramanzia e forse anche per modestia prese il numero 30.
Pastore cambiò in corsa la storia del Palermo di Delio Rossi, nel giro di un anno lo portò in finale di Coppa Italia e come regalo di congedo fece recapitare a Zamparini 40 milioni di euro provenienti da Parigi. Un 10 autentico Pastore, moderno nella corsa, delicato nel tocco, con l’unico difetto di scarso carisma. Fattore che non mancava, per esempio, a Sandro Vanello che quella maglia l’ha portata in giro per qualche stagione, anche lui sino ad un’infausta finale di Coppa Italia, quella scippata dal Bologna. Bisogna avere almeno 5 decenni sulle spalle per ricordare le gesta di uno dei miti rosanero degli anni ’70. Geniale a corrente alternata, nella tipica tradizione del ruolo, elegante dentro e fuori dal campo, fece meno di quanto avrebbe dovuto, si disse perché nato ricco e meno disposto al sacrificio, primo presupposto per inseguire fama e gloria. Amico di Ferruccio Barbera, figlio del presidente (uno che se avesse giocato è certo che il 10 l’avrebbe avuto lui), andava a tagliarsi i capelli a Milano. Questo per descrivervi il tipetto. Pochi anni prima il 10 l’aveva avuto Romeo Benetti, questo per sottolineare che il proverbio spesso non ha torto: l’abito non fa il monaco.

Era un 10 Maurizio D’Este, tanto per non dimenticare gli anni della decadenza e come lui Gaetano Musella; non lo era Giacono Modica e neppure Nuccio Barone che pure hanno indossato quella maglia. A voler essere di bocca buona, si può aggregare alla comitiva degli eletti Totò Lopez. L’unica riserva riguarda il fatto che aveva la vocazione per la regia e di gol ne fece meno di Volpecina che nella carta d’identità portava scritto terzino.
Assieme a Vazquez – che, non dimentichiamolo, unico fra tutti con il Palermo ha conquistato anche la Nazionale – il 10 per eccellenza degli anni 2000 è stato Lamberto Zauli. Avercelo avuto negli anni della sua giovinezza, quando la cecità di molti dirigenti l’ha invece confinato nei campi di terza serie. Zauli ci ha fatto vedere cosa differenzia un campione da un giocatore normale, la capacità di fare ciò che gli altri neanche immaginano, di trasformare un pallone morto in una giocata e talvolta anche in un gol. È stato, ci si consenta l’azzardo, il nostro Zidane, ma a differenza del francese non ha abbandonato neanche per un minuto lo stile che segna i fuoriclasse.

Questa passeggiata nel tempo per gridare al mondo il nostro smarrimento avendo appreso che il sacro 10 quest’anno sarà sulle spalle di Trajkovski che, per carità, qualche numero ce l’ha, ma non ha neanche una delle qualità richieste. Se ce la passate, è anche un atto di presunzione del macedone, oltre che l’assenza totale del governo dello spogliatoio. Perché un allenatore o un team manager avrebbero dovuto consigliargli di evitare, di prendere un numero a caso e pensare alla salute. Perché un 10 può anche essere sregolato e persino irritante, ma poi fa quella cosa che ti restituisce il sorriso, ti fa vincere le partite e dimenticare gli infiniti minuti di abulia. E noi con Trajkovski di questi momenti invece ne abbiamo trascorsi davvero troppi.