Genova è…
Genova è “ma come fai ad orientarti qui che io mi perdo ancora?”, detto da mio padre.
La città che ho dovuto conoscere perchè mia mamma ci è venuta a vivere. E quando ti presentano un nuovo membro della famiglia all’inizio ci si guarda in cagnesco entrambi.
Sono le strade che se sbagli ti ritrovi a dover fare il giro.
Genova è “Ulisse e la balena bianca” recitato da Vittorio Gassman al porto antico. Che poi mio padre lo rivide a Palermo e disse “no, manca la magia di Genova, non è la stessa cosa in teatro”.
Le scalinate dei vicoli, è Castelletto, dove posteggi la macchina perchè giù non c’è speranza.
Dove vive chi ti ha salvato la vita, aiutandoti davvero, per una atavica amicizia.
Il G8 con le telefonate apprensive e i “mamma non uscire che gli scontri sono proprio da quelle parti”.
E “quelle parti” erano proprio dietro via del Campo. Tanto cara a De Andrè.

Lo stupirsi che il mare e la montagna siano praticamente attaccati, il rimanere a bocca aperta dopo i tornanti perchè ti si annuncia il mare. Sono le case piccole dove ha sempre scelto di vivere mamma, ma che sanno ancora di famiglia guadagnata, che ce l’hai sparsa lungo tutta l’Italia. Quello che ne resta. Sono gli amici. E via Fereggiano, che quel giorno della piena due minuti prima mamma passava ed è fuggita per le scale e il fiume sotto. Quella pietra appena accanto all’edicola, davanti alla strada che arriva a Marassi, che fa la differenza, tra chi dal torrente in piena è stato ucciso e chi no. La lapide con i nomi. E quel giorno che chiamavi, perchè sapevi che in quella zona doveva esserci lei. E non rispondeva.
Marassi, carcere, ma anche stadio. Stadio che sembra condominio, tra i palazzi. Che ci entri e ti vengono i brividi perchè sembra di essere in Inghilterra. E poi a Genova si sceglie. Doria o Genoa. E allora se hai scelto Doria, alla fine delle partite, si canta “il cielo è sempre più blu, cerchiato di blu”. E a te viene da piangere a pensarci.
Sono gli amici genoani che “ti ho preso il biglietto per la Samp, però non dirlo che ci rimetto la dignità”.
E poi quelle false credenze, ma quali avari. Sono parsimoniosi. Ti devono voler bene per darti tutto. Sono “ormai sei genovese adottivo, con tua mamma che vive qui da una vita”.
Dire a chi ami “eppure una casa qui la prenderei, qui ci verrei a vivere”. E “dove scendo a Brignole o a Principe che non mi ricordo mai?”.
La cartolaia che ti dice “abbia pazienza, non so fare lo scontrino con questo nuovo registratore di cassa, ma le alluvioni ci hanno devastato il negozio due volte e abbiamo dovuto ricomprare tutto. E ancora aspettiamo i soldi delle amministrazioni ma dobbiamo andare avanti”.
Gli angeli del fango, ragazzi meravigliosi che con la pala e i secchi hanno ripulito le ferite ormai stagionali delle esondazioni. Incrociare le dita ogni volta che piove. E i vigili del fuoco e le forze dell’ordine che scavano sopra un ponte collassato che ancora guardi e non ci credi. E non ne puoi più di vedere una città di cui diffidavi così ferita. Perchè ora la ami, la ami perdutamente. Le hai perdonato quello che la vita non le perdona mai. Essere così bella e così fragile.
Ma non debole. Debole mai. Perchè al contrario di tanti altri, Genova quando occorre si ama d’amore. Amore vero, in cui ci si guarda e ci si rimbocca le maniche, in divisa o meno. Genovesi o meno. Perchè se vieni da fuori, questa città la ami o si fa amare per forza. Perchè ora ci sono altri trentanove motivi, altre trentanove anime da amare. E bisogna farlo. Il cielo è sempre più blu. Forza Zena. Scusate i ricordi privati per la ferita pubblica, se potete.
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