La tragedia di Montagna Longa 46 anni dopo. Durante: “Ecco perché pensiamo ad una bomba”

Sul Dc8 c’era suo fratello Gianni, astro nascente dell’ingegneria elettronica. “L’hanno ritrovato senza scarpe e con la collanina in bocca. Mio padre vide una palla di fuoco in cielo e anche il giornale L’Ora parlò di un ordigno a bordo. Il dolore non passa mai, la verità ci è stata negata”.

Per molti è la data della morte di Napoleone, ad altri rievoca la nascita di Karl Marx e poi ci sono i dissacratori che festeggiano il più assurdo degli scudetti regalati dall’Inter alla Juve. Per quelli della mia generazione, già grandicelli negli anni ’70, il 5 maggio è solo e soltanto Montagna Longa, il primo grande mistero della storia siciliana del secondo ‘900. Il Dc8 dell’Alitalia si schiantò, si disse per errore umano, proprio nella montagna posta tra Carini e Cinisi, indesiderata sentinella dell’aeroporto di Punta Raisi e terrore di intere generazioni di piloti. Quella notte fu l’ultima notte di 115 persone e anche il confine con la tragedia che le loro famiglie oltrepassarono senza mai più tornare indietro.

Antonella Durante nel 1972 aveva 19 anni, studentessa del secondo anno di Medicina, a bordo di quell’aereo c’era il fratello Gianni, docente universitario e astro nascente di ingegneria elettronica. Tornava a casa dopo un convegno a Genova e fu costretto a fare tappa a Roma, città che con Milano si divideva quasi tutte le rotte per il sud.

Per una terribile coincidenza i genitori di Antonella videro quella palla di fuoco in direzione della montagna. Casualmente, come si può ammirare un panorama insolito dalla finestra di casa.
Ma non immaginarono che quella era la bara infuocata del loro secondogenito. “Noi sapemmo che l’aereo era caduto alle 2 di notte, una telefonata dai toni spicci, risposi io, mi dissero dell’incidente come si comunica una notizia di poco conto. L’incubo cominciò così”.

Quarantasei anni dopo Antonella, che medico lo è diventato in fretta e da pediatra ha allevato migliaia di piccoli palermitani, le sensazioni mortali di quella sera se le sente ancora addosso. “Sono stata io a salire sulla montagna, cercavo tracce di mio fratello, ero convinta che fosse ancora vivo. Ho aperto 85 ambulanze per ritrovarlo, non potevo accettare la verità nonostante i soccorritori mi avessero detto che non c’era nulla da fare, che erano tutti morti. Il giorno dopo il giornale L’Ora scrisse che si era trattato di una bomba mentre la versione ufficiale parlava d’altro, di un drammatico incidente punto e basta. E io continuavo a pensare al racconto di mio padre, la palla di fuoco in aria. Sapete poi come è stato rinvenuto mio fratello? Senza scarpe e con la catenina con il crocifisso in bocca. Tutti elementi che non fanno pensare ad uno schianto improvviso. La sensazione è che la verità ci sia stata negata. E ancora oggi è così”.

Un calvario che dura da 46 anni, attraversati con tutte le gamme possibili di stati d’animo.
“Prima provai a reagire, a prendere di petto la vita, c’era il dolore dei miei genitori che ho compreso solo dopo essere diventata madre a mia volta. Ma poi devi fare i conti con un buco dentro, un’amputazione che non puoi sanare. Il dolore non passa, non passa mai, si può solo gestirlo. Sono stata in analisi perché il lutto deve essere elaborato e solo oggi posso dire di esserci riuscita. Adesso vado in chiesa, porto i fiori a mio fratello, ma resta il senso di una profonda ingiustizia e la voglia di verità che non può essere ancora ignorata”.