La vera conquista è ricominciare a parlarsi davvero. Intervista alla mediatrice Rosa Domilici
Mediare, conciliare, parlarsi. Il dialogo sembra una rondine lontana a primavera finita in questa epoca di finta socialità. Non è condividere, è la gara a chi urla prima. E questo è un testimone che stiamo passando ai nostri figli, se è vero che nelle cronache, passiamo indistintamente da termini come “bullismo” a “femminicidio”. In questa apparente siccità di parole, c’è chi prova a cercare ancora l’alveo del dialogo.
Rosa Domilici, mediatrice e consulente familiare, laureata in Filosofia, perfezionata nella conduzione di gruppi di parola per figli di genitori separati, ha orientato il proprio lavoro verso il tema del sostegno alle famiglie in difficoltà nello svolgimento dei propri compiti di educazione e cura, soprattutto in fase di separazione e divorzio.
In tale ambito, oltre a prestare attività di consulenza, si occupa di progettazione e conduzione di incontri per la genitorialità, presso scuole per l’infanzia. Inoltre, svolge attività di formatore sul tema della medicina narrativa e della comunicazione in Sanità, nei corsi di aggiornamento professionale destinati agli operatori sanitari.
Dottoressa Domilici, lei agisce in strutture che a livello di difficoltà umane e sanitarie possono definirsi di confine, ci spieghi bene quali sono i compiti che svolge e dove.
Mi occupo di Mediazione e consulenza familiare in ambito ospedaliero, grazie ad una collaborazione con l’ASLTI Onlus (Associazione Siciliana Leucemia e Tumori dell’Infanzia) – Liberi di crescere, operante presso l’Unità Operativa di Oncoematologia Pediatrica dell’ospedale Civico di Palermo. L’ASLTI, dallo scorso mese di febbraio, ha avviato un progetto pilota di Media Education: “Professione genitori 2.0: fare ‘Rete’ in famiglia”, rivolto ai genitori con minori ed ai figli adolescenti del reparto.
L’obiettivo del progetto, ideato da Giuseppe Furfari, amministratore di rete e di sistemi, è quello di offrire ai genitori ed ai ragazzi uno spazio di apprendimento e di consapevolezza dell’accesso e dell’utilizzo della rete, attraverso l’acquisizione del linguaggio della realtà allargata e dei possibili pericoli connessi alla navigazione.
Il mio ruolo è quello di coinvolgere le famiglie attraverso domande orientate ad accrescere la consapevolezza delle proprie abitudini, all’interno del contesto ospedaliero, grazie ad un questionario appositamente costruito. I miei strumenti sono: l’ascolto attivo, l’attenzione alla comunicazione verbale e non verbale e, soprattutto, la cura delle relazioni familiari, attraversate da un evento critico che costringe, da un giorno all’altro, a riorganizzare gli equilibri per fronteggiare la malattia. Ad aggravare il peso di tale evento può contribuire il tipo di legame genitoriale in atto: la separazione, il divorzio, la convivenza con nuovi compagni, l’eccessiva ingerenza delle famiglie d’origine.
Grazie all’esperienza maturata in forza di un precedente rapporto di collaborazione con un’altra associazione, operante nello stesso contesto, ho potuto riprendere un percorso umano che mi ha fatto sperimentare nuove e diverse modalità di approccio professionale.
Avere a che fare tutti i giorni con realtà difficili, come la fa sentire? Che cosa significa avere una visione della vita orientata ogni giorno a chi soffre anche per cose gravi?
È un pensiero ad alta voce: “Centrata su me stessa” e sul senso che io do alla mia professione ed alla mia professionalità. Ogni volta che entro in reparto, o varco la soglia del D.H, saluto, sorrido e comincio ad ascoltare le narrazioni, i racconti anche e soprattutto di chi rimane dietro la porta, perché: “In questo reparto sono sospese le visite”. E chi rimane fuori è il “resto” della famiglia, sono i nonni, i fratelli, che diventano “sani” perché fratelli di bambini che si ammalano, gli amici più stretti ed anche quelli che gli stessi familiari non si sarebbero mai aspettati di trovare lì, fuori da quella porta. Ed io mi fermo a parlare con loro, ascolto con attenzione, riconosco il loro dolore con le parole che tirano fuori, mentre il respiro rimane a metà. Costruire e ricostruire relazioni ed equilibri comunicativi ed emozionali è un compito non semplice da portare avanti, specialmente quando la guarigione non c’è, il miracolo non arriva, la chemioterapia non riesce ad essere efficace. Io li vedo, mi accorgo di loro e mi prendo cura del loro dolore, ascoltandoli.
Sono cresciuta all’interno di un nucleo familiare che si è sempre fatto carico dei bisogni dell’altro, nelle relazioni amicali, attraverso il volontariato “agito” in prima persona: la predisposizione all’altro è un elemento essenziale della mia cultura familiare. Io ne ho fatto un lavoro, studiando, approfondendo competenze e affinando tecniche di ascolto e di comunicazione, ma ciò che fa la differenza, per me, è sostare davvero accanto all’altro, con rispetto e cura. È ciò che mi riesce meglio, è la posizione che mi è più congeniale, ma su di essa mi interrogo costantemente, ogni volta che qualcuno mi ringrazia dopo aver parlato con me: in quel momento ho consapevolezza della responsabilità e del potere delle parole che, dette, creano realtà.
Lei ultimamente sta portando avanti una battaglia per l’affermazione della mediazione familiare e sul ruolo preponderante che essa può avere per evitare contrasti, ci spieghi di cosa si tratta.
La mediazione familiare, in particolare quella ad orientamento sistemico, è uno strumento utile per riorganizzare le relazioni familiari in vista della separazione coniugale, o in altri casi di transizione familare, che possono accendere il conflitto, come la malattia di un figlio, la perdita del lavoro o le scelte radicali relative al futuro della famiglia.
Quando al “Vissero felici e contenti” viene meno il “Per sempre”, finisce il legame di coppia e continua il legame genitoriale: paradossalmente, è necessario trovare il massimo accordo, per il benessere dei figli, nel momento di massima tensione, proprio della separazione. Due persone che decidono di “Fare famiglia”, mettono insieme il proprio patrimonio familiare d’origine: aspettative, sogni, progetti. La cornice è la “Famiglia”, il significato attribuito al termine e la gestione di essa possono essere diametralmente opposti. Gli eventi della vita, anche quelli definiti positivi, come la nascita di un figlio, un nuovo lavoro, un trasferimento in una nuova città, così come gli eventi critici come, appunto, la malattia di un figlio o la perdita del lavoro, possono cominiciare a far emergere le prime differenze, i primi cedimenti, che finiscono con: “Tu non sei quello che IO mi aspettavo tu fossi”. La descrizione è quella di un tradimento nell’accezione data da Umberto Galimberti come svincolo da una appartenenza, per una nuova indentità costruita per se stessi e non in relazione all’altro: sono i progetti ad essere stati traditi, sono i sogni ad essere stati infranti, ma a far rumore sono i piatti che volano da una parte e dall’altra. Si apre così lo scenario del conflitto narrato, portato sulla scrivania degli avvocati, ma il conflitto vissuto, che riguarda le delusioni e le ferite emotive, rimane come fuoco sotto la cenere, pronto a riprendere vigore al primo: “Sì, ma…” pronunciato da una delle due parti coinvolte.
Purtroppo molto spesso il ruolo di mediatore “fittizio” a volte anche suo magrado è viene rappresentato dall’avvocato di parte. Che, al di là delle sue competenze professionali, comunque non ha tra i suoi doveri, la creazione di un canale empatico col cliente in fase di separazione. In questo quanto è di aiuto anche a chi svolge funzioni di assistenza processuale, il ruolo del mediatore?
Semplificando al massimo: gli avvocati hanno competenza sui beni, il mediatore familiare ha competenza sul Bene che c’è stato all’interno della coppia, ed ha come obiettivo la ristrutturazione di una nuova relazione co-genitoriale, attraverso la costruzione di un accordo che sia soddisfacente per entrambi e che ritiene assolutamente prioritario il benessere dei figli. Il mediatore familiare è un terzo neutrale, vincolato al segreto professionale, l’intervento è autonomo rispetto al circuito giudiziario, il contesto è quello dello studio del mediatore familiare, il numero degi incontri è limitato, gli accordi devono essere ratificati attraverso gli avvocati e potranno essere sempre rimodulati a seconda delle esigenze future dei figli. Un accordo è il risultato di un processo emotivo e relazionale che ripercorre a ritroso la storia familiare e che consente alle coppie di recuperare, nel tempo “presente” del conflitto, il senso del loro passato insieme, per ricostruire un futuro possibile.
La mediazione familiare, può essere d’aiuto anche per stemperare conflitti che, purtroppo, a volte si trasformano in una escalation pericolosa?
Immagini la trama familiare come una vera e propria trama di tessuto, costituita da due pezzi di stoffa che, un giorno, per caso, per scelta, per destino, per volere divino, (questo dipende dalla spiegazione che ciascuno di noi dà a ciò che gli accade), si trovano ad essere accostati insieme: possono essere tonalità diverse di uno stesso colore, colori opposti, fantasie diverse, toni neutri o vivacissimi. Guardati dall’esterno possono risultare gradevoli alla vista, “stanno bene insieme”, oppure possono apparire poco “abbinabili”, come quando i bambini cominciano ad affermare il desiderio di scegliere come vestirsi e danno vita a combinazioni che agli occhi degli altri, possono risultare incredibili. Ma loro, i pezzi di stoffa, stanno bene accanto e decidono di cucirsi in un habitus, un abito che è anche un avvio di abitudini, con il filo della convivenza e/o del matrimonio. Il tempo, l’usura, gli eventi, possono sdrucire la cucitura e una delle due parti, anche inconsapevolmente, comincia a tirare per separarsi. L’altra parte può restare ferma, in attesa che la sollecitazione cessi (“È accaduto 99 volte, perché la centesima dovrebbe essere diversa?”), può inizialmente assecondare il movimento per cercare, poi, di riportare la cucitura nella vecchia posizione, oppure può opporsi con violenza, strattonando l’altra metà. Tale strattonamento viene agevolato dagli avvocati di parte, dalle famiglie d’origine, dalle reti amicali e dai contesti di appartenza. Le forze in gioco possono non essere equivalenti: la stoffa si strappa e finisce a brandelli, e i due pezzi rimangono irrimediabilmente rovinati a vita: non possono più essere riutilizzati per creare nuovi abiti, per ricostruire nuove trame familiari.
Il mediatore familiare agisce con abilità sartoriale, cominciando a tracciare con il gesso, prima leggermente, poi con più evidenza, i nodi da sciogliere, per arrivare al taglio del filo di cucitura, punto dopo punto, risalendo fino alla prima imbastitura. Le due parti, così divise, mostreranno solo i segni del passaggio del filo di cucitura, ma potranno trasformarsi in un abito nuovo, privo di rattoppi.
La mediazione familiare sistemica è un lavoro centrato sulle premesse sulle quali è nata la coppia. La separazione richiede la stessa cura, se non ancora di più, del matrimonio o della convivenza, perché richiede il trattamento del dolore della separazione, del distacco, della delusione, tanto più profonda quanto più elevate erano le aspettative. I colleghi spagnoli utilizzano un’espressione che amo molto: “Manejar” il conflitto, maneggiarlo, toccarlo con le mani e attraversarlo. La natura del conflitto non è razionale: è emozionale.
Nel caso di nuclei familiari in cui si ravvisa un alto rischio di aggressività, come dovrebbe comportarsi chi cerca di mediare dall’esterno?
L’alto rischio di aggressività è legato alla perdita del senso di ciò che accade, alla perdita della definizione di me rispetto all’altro, alla paura per la perdita del legame che rimane vivo attraverso il conflitto. La mediazione gestita da chi vuole far fare semplicemente “pace” o non ne ha le competenze, ha come risultato l’escalation di cui Lei parlava prima, perché mantiene il conflitto all’interno della spirale infinita della colpa, del torto e della “presunta” ragione. Ogni volta che si verifica un episodio di violenza all’interno di un nucleo familiare, c’è sempre qualcuno, un avvocato, un familiare, un esponente delle forze dell’ordine, che dice: “Tutti i tentativi di riconciliazione sono stati vani”.
Innanzitutto, che cosa si intende per: “Tentativi di riconciliazione?” , “Tornate a casa perché c’è ancora un ultimo servizio di piatti da scagliare?” E perché? Per il “bene” dei figli? Il benessere dei figli è avere due genitori sereni, presenti, che utilizzano una modalità comunicativa e relazionale che consente loro di crescere sapendo di poter contare sulla loro presenza, non necessariamente e non “per forza”, davvero, sotto lo stesso tetto. I figli ascoltano con i sensi e con le emozioni: sono consapevoli di ciò che accade e si meritano un posto privilegiato nella riorganizzazione delle relazioni familiari, dopo la separazione. Tentativi di riconciliazione così descritti mi ricordano la scena di “Baarìa”, in cui la protagonista, dietro la grata della finestra, cerca di evitare lo scontro fisico tra l’innamorato ed il fidanzato “ufficiale”, tentando di fermare l’escalation del conflitto, urlando: “Parlatevi, parlatevi!”, e i due, pur ripetendo l’esortazione (“Parliamoci”, “E parliamoci”), si avvicinano minacciosi l’uno contro l’altro, scagliandosi delle pietre addosso: il linguaggio verbale non coincide con il linguaggio non verbale del corpo, che è quello con cui è difficilissimo mentire. Quando i due arrivano alla minima distanza, avviene lo scontro fisico. L’impossibilità di impedire lo scontro da parte della ragazza, ostacolata dalla grata, è paragonabile a chi conduce i famosi tentativi di riconciliazione, non avendo competenza e strumenti per smontare la grata del conflitto.
Lei che sicuramente ha visto tanti episodi simili, quando c’è di mezzo un bambino, nella sofferenza o nel conflitto familiare, è frequente o no un passo indietro dei genitori per garantire la sua serenità?
È un obiettivo che deve essere evidenziato immediatamente: spesso, uno dei due genitori continua a rimarcare esplicitamente le “colpe” dell’altro genitore, nel tentativo di allontanarlo o, addirittura, eliminarlo dalla vita del figlio, non rendendosi conto che, indipendentemente dall’età, un figlio rimane sempre figlio del proprio padre, della propria madre. Entrambi i genitori sono responsabili in senso etimologico, cioè “abili al responso”, capaci di essere presenti nel proprio ruolo e con le proprie funzioni, anzi, in diversi casi, i padri cominciano davvero a passare più tempo con i propri figli.
Esiste la possibilità, ed è un’esperienza unica per genitori e figli, di comunicare attraverso la creazione di un “Gruppo di parola”, che si attiva per 4/5 bambini o adolescenti, dalla durata di 4 incontri, durante i quali emergono emozioni, stati d’animo, cose “non dette”. L’ultimo incontro prevede che un’ora sia dedicata ai genitori, che ascoltano una lettera o dei pensieri, elaborati dai propri figli. È un momento di grande impatto emotivo, che serve a tutti i componenti del nucleo familiare, per dare voce al dolore.
Cosa si sentirebbe di dire alle donne che all’interno di una famiglia fossero oggetto di vessazioni e abusi che sono già un segnale pericoloso?
Che ogni volta che non danno il giusto peso ad un gesto, ad una parola, ad un atteggiamento che non sia manifestazione di vero rispetto, legittimano il comportamento di chi le schernisce, le aggredisce, le considera un oggetto, meno di niente. Pensare che: “Oggi è successo perchè…”, “Domani non succederà”, “Fra cinque minuti sarà passata”, significa assuefarsi ad una relazione che ferisce, mortifica, umilia. Si finisce per credere di non valere nulla: birilli pronti a cadere, per poi essere tirati su nella stessa posizione, pronti per essere nuovamente tirati giù.
Se da lei invece venisse un uomo a raccontare la sua esperienza manipolatoria del coniuge, come e cosa penserebbe? Glielo chiedo perchè a volte sui social si legge di professionisti che dovrebbero fare un interesse neutro, molto apertamente schierati con crociate all’insegna de “gli uomini sono tutti uguali?”
Bisogna sempre saper distinguere tra professionisti e professionalità: tutti i professionisti esercitano una specifica professione, ma la professionalità, propria di chi esercita con competenza, etica, abilità, capacità di discernimento, non appartiene a tutti, come in ogni settore. La “neutralità” è un esercizio continuo della “giusta distanza” professionale e personale: si possono avere delle esperienze personali, delle idee rispetto ad un caso, ad una persona, ma si deve avere la consapevolezza che si tratta di esperienze proprie, in nessun caso utilizzabili nel contesto professionale per condurre guerre contro i propri fantasmi.
Ogni giorno costruiamo relazioni: lo facciamo con tutti quelli che incontriamo per lavoro, per amicizia, per amore, e proponiamo all’altro il nostro modo di stare dentro le relazioni, che cambia a seconda del contesto. Se ho un appuntamento di lavoro, mi vesto in un certo modo, mi presento nella maniera che ritengo professionale, ed utilizzo un certo tipo di linguaggio. In altri contesti in cui mi muovo, nelle relazioni familiari, sociali, amicali, il modo in cui parlo, mi vesto ed interagisco è certamente diverso.
Generalizzare, conducendo, come Lei dice, crociate contro il nemico, significa non tenere conto che all’interno di una relazione si è (almeno) in due, e quella che si definisce in un linguaggio più tecnico “proposta relazionale” può essere accettata dall’altro, può essere rifiutata, o può essere ignorata. Ciò può avvenire in ogni momento della relazione, perché accadono cose, perché apparteniamo a diversi contesti e ricopriamo diversi ruoli: siamo conviventi, coniugi, genitori, figli, amici, colleghi, compagni di passioni musicali, sportive, politiche, ed ogni volta agiamo in maniera diversa, con un tono più o meno confidenziale, con una prossemica adeguata all’interlocutore. Una parte dell’identità e del nostro modo di costruire appartenenze sono in continuo dialogo ed in continua mediazione. Definire gli uomini (o le donne) tutti uguali, può significare continuare a voler restare (anche agevolmente) nel ruolo di vittima, cercare di far coincidere un modello ideale di uomo con chi, nella quotidianità, nello scorrere del tempo, mostrerà subito la sua appartenenza al genere umano, o, banalmente, a voler raccogliere consensi o like sulle pagine che si gestiscono.
Ogni relazione a due è unica, e chi ne fa parte descrive la storia dal proprio punto di osservazione. Predisporsi con un pregiudizio a priori sulle categorie umane mi ricorda la scena di un film di Zalone: “I figli dei drogati li mettiamo a sinistra, i figli dei reati contro il patrimonio, le rapine e tutte le altre cose, a destra…”
Alla luce della sua esperienza, cosa e come è cambiato un padre e una madre dei nostri tempi rispetto al passato?
Quando diventiamo genitori, il nostro stile genitoriale messo in pratica è per somiglianza e per differenza rispetto allo stile genitoriale ricevuto da figli: diamo loro quello che ci sembra ci sia mancato, tendiamo ad evitare comportamenti che non abbiamo gradito, aumentiamo o diminuiamo il rigore e le concessioni e, quando i nostri figli cominciano ad esprimere il loro pensiero e la loro personalità, ci rendiamo conto che qualcosa abbiamo sbagliato, pur non volendolo, qualcosa abbiamo azzeccato, un po’ per fortuna ed un po’ per merito, e che sono state le nostre azioni e le nostre scelte personali a orientare i nostri figli, non le regole dette e poco condivise. Ad ogni generazione, però, sembrano indebolirsi ruoli e funzioni proprie della genitorialità: alcuni tra i genitori con cui io interagisco per lavoro, in ospedale o negli incontri sulla genitorialità condotti in scuole d’infanzia, appaiono molto presenti, fisicamente, nella vita dei figli: tendono, in molti casi, a sostituirsi a loro, ne anticipiano i bisogni, evitano qualsiasi assunzione di responsabilità (noti i gruppi di genitori su WhatsApp, utilizzati per chiedere i compiti che i propri figli non hanno avuto l’accortezza di appuntare sul diario ne sono un esempio eclatante, perché si tratta anche di adolescenti), li difendono contro tutto e tutti e, paradossalmente, non riescono a difendere se stessi ed il proprio ruolo, che prevede funzioni di accudimento, cura, e delega delle responsabilità, nel senso etico di cui accennavo prima. Il risultato è, spesso, quello di tirare su dei figli in cerca di contenimento e conferme, regole e confini, nel gruppo dei coetanei.
Cosa porta secondo lei a questo delirio narcisistico e di annullamento di figli e coniuge che purtroppo vediamo sempre più frequentemente?
L’elemento fondamentale è la differenza emotiva che caratterizza i due coniugi. Chi decide di lasciare non ne può più, ha già iniziato l’elaborazione del lutto e, spesso, ha già cominciato a progettare, gettare oltre il presente, una vita completamente diversa. Parlare di separazione, dirlo, significa dare voce ad un pensiero che è già stato elaborato. Chi decide di separarsi ha già la valigia pronta, ha già aperto la porta sulla nuova vita, ha ripreso a respirare profondamente, e vuole ricominciare a vivere coltivando nuovi sogni. Chi subisce la richiesta di separazione è ancora sotto le coperte, o sul divano col telecomando in mano: all’improvviso arriva il dolore per il lutto inaspettato, che diventa subito rabbia, sete di vendetta per l’espiazione della colpa dell’altro, i pensieri diventano ossessivi, il tempo appare sospeso. Utilizzo il termine “lutto” perché la separazione è caratterizzata da una serie di perdite: perdita della famiglia così come era stata immaginata (La moglie dell’uomo di Cisterna di Latina dice al marito, nel corso dell’ultima telefonata: “Ti manca fare l’albero di Natale? Dovevi perdere tutto per capirlo… Avevi tutto, due figlie intelligenti, una moglie che ti stramava… Ora penso a me e alle mie figlie perché ho dato la mia vita per te”), perdita del ruolo (nel caso del narciso, esercitato attraverso il controllo, la minaccia che alimenta un clima costante di paura: “Tu le hai obbligate – si riferisce alle figlie – per anni a fare le cose che non volevano”), perdita del legame, e terrore di non esistere più senza l’altro. Io esisto solo in relazione all’essere marito di, padre di, e il contesto in cui vivo mi vede solo per queste appartenenze. Chi decide di separarsi ha già cominciato a non riconoscersi più in tali appartenenze ed ha avviato la definizione per se stesso; chi subisce la separazione, perde il senso, la propria identità considerata fino a quel momento definita per sempre, e può, se non aiutato e contenuto, uccidere. Tu sei mia, voi figli siete miei per sempre, oltre il “Finchè morte non vi separi”.
Se dovesse condensare in due parole la chiave per spronare ad una comunicazione migliore? Cosa direbbe?
(Mi verrebbe da scrivere: “Parlatevi, parlatevi!”)
La capacità di migliorare la comunicazione passa attraverso la nostra propensione ad ascoltare, e non sentire semplicemente, ciò che viene detto.