La sinestesia, una piccola fortuna nel patire

Dopo la trendy resilienza e l’evergreen empatia, si profila all’orizzonte una nuova poetica parola che prima o poi useremo a spina di pesce (per non dire a cazzo di cane che siamo in fascia protetta). La parola è sinestesia.

La sinestesia può riguardare due discipline, letteraria e sensoriale. In letteratura è l’accostamento di due parole appartenenti a sfere percettive diverse, esempio “rabbia verde”, in psicologia è invece l’effettivo sovrapporsi di due percezioni, cioè non è solo teorico, succede davvero. Le persone sinestetiche identificano ad un suono un colore, ad una parola un gusto e lo provano effettivamente per un effetto di lieve cortocircuito sensoriale. Non è raro che ascoltino canzoni e vedano dei colori associati, la sensazione più frequente infatti è quella, suono o vista associati ad un colore.

Una piccola fortuna nel patire. Non è grave e conduce chi la prova in una dimensione poetica e davvero unica. Per quanto surreale. Sono quelle distorsioni che non fanno troppo danno. Ad esempio una forma di epilessia non convulsiva, che dà a chi ne soffre la sensazione di estraniarsi da sé, come se ci si guardasse da fuori. Se non lo sai impazzisci, se lo sai quasi ti senti un superpotere, per gioco.

In ogni caso la sinestesia è fantastica ma a volte anche chi non lo è può provare la stessa esperienza. Vi faccio un esempio. Se vi trovate davanti uno che ritenete sgradevole e arrogante, se ogni volta con le parabole della sua spocchia è in grado di prendere Sky base, cinema e calcio insieme e anche le conversazioni dei camionisti radioamatori, se la sua presunzione è come l’acqua del mare inquieto, che pensi che si stia ritirando e invece torna impetuosa, beh, se quando lo incontrate lo vedete marrone, non siete per forza sinestetici, è lui che è uno stronzo.