“La vampa e San Giuseppe”: Palermo secondo Piparo

“Non era soltanto la vampa di San Giuseppe, erano i giorni che la precedevano, la raccolta della legna vecchia, le corse per non farci incocciare dai grandi. I saittuna (le saette, ndr), ci chiamavano alla Filiciuzza“. All’altro capo del filo c’è Salvo Piparo, attore palermitano, ma soprattutto cantore della Palermo degli anni ’80, “una città fa”, come la definisce lui. Racconta al Gazzettino di Sicilia la Palermo di un tempo e le vampe di San Giuseppe, che nella notte tra il 18 e il 19 marzo riempivano di fumo, odori e colori la città. Quasi un trionfo al santo, un tradizione che aveva molto di profano e ben poco di sacro, ma che faceva parte di una città che sembra oggi lontana anni luce.

“Io abitavo nel rione più contraddittorio per definizione, la Filiciuzza, che di felice aveva solo il nome. Poi era il posto più infelice di Palermo, perché noi palermitani siamo portatori sani di contraddizioni. Circondato dall’ospedale Civico, dall’ospedale dei Bambini, dalla camera mortuaria, di felice quel posto aveva ben poco, eppure si chiamava così”.

“Si racconta – aggiunge – che il Santo, facendo il falegname, bruciasse la legna vecchia. Era un po’ come cambiare pelle. Che poi a Palermo i ligna hanno anche un altro significato, sono le corna. Insomma, era come bruciare le corna vecchie per fare spazio a quelle nuove. Che poi, mischino, mio zio era pompiere e cercava di venirci a prendere. Noi eravamo 20 ragazzini, non avevamo paura di nulla. Però non abbiamo mai fatto danni, la gente del quartiere lo sapeva che ci sarebbe stata la vampa. Certo, ogni anno si bruciava l’asfalto… ma a parte quello niente di grave!”.

“Che poi alla Filiciuzza negli anni ’80 pareva San Giuseppe una sera sì e una sera no. Erano gli anni della guerra di mafia, bruciava una macchina a sera. Una città fa, insomma. Quannu u pitittu faceva acitu (la fame faceva acido, ndr). Eppure quella fame aveva una poetica. Anche la polvere non è più la stessa di allora. È una città più incattivita, più imborghesita. Oggi abbiamo le mafie dei rumeni, dei nigeriani. Se parliamo di spaccio, lì l’integrazione c’è, eccome, a Palermo. Mai il palermitano si è integrato così. E siamo lontani dalle persiane dei fratelli di latte, quando la vicina che aveva più latte di te al seno, allattava anche tuo figlio. Questo accadeva al tempo delle vampe. Oggi la vampa sta diventando vintage, in una  città che mi sembra sbiadita. E quando dico sbiadita, intendo che le nuove generazioni  probabilmente non lo leggeranno nemmeno questo articolo, stiamo raccontando cose che non interessano più ai ragazzi, che però conoscono bene l’appuntamento col cantante di turno al centro commerciale o nella mega-libreria”.

“Siamo meridionali, siamo portatori sani di teatro, ma in questa globalizzazione che ha contaminato anche noi, ci stiamo impoveriti. I nostri bambini non giocano più per strada, ma vanno a giocare al centro commerciale. Io da bambino mi sono fatto gli anticorpi sbucciandomi le ginocchia per strada. Tu li vedi questi ragazzini, io faccio il tifo per loro, mi piacerebbe che dessero il loro contributo, ma non lo so, li vedo un po’ rincitrulliti“.

Che poi San Giuseppe non era solo la vampa a Palermo. Nelle botteghe antiche c’era sempre un San Giuseppe appeso al muro. Raccontava anche la scaramanzia del palermitano, non era solo religione. Quando la giornata andava bene, si baciava il santo. Ma se non si lavorava, allora ecco che si inveiva contro San Giuseppe. Prendi la Taverna Azzurra, alla Vucciria, che proprio in questi giorni è stata chiusa. C’è San Giuseppe. E sotto c’è Franco Franchi. Che è un’altra divinità per noi, ci riporta al nostro essere meridionali, al nostro essere portatori sani di teatro”.

“E poi c’era la pasta. Ve lo ricordate qual era la pasta che si preparava a San Giuseppe? La pasta con le sarde. Un’altra bellissima metafora dell’essere siciliani, dell’essere palermitani, dell’essere portatori sani di teatro. Quando c’è un inciucio, il palermitano dice che finì a pasta chi sardi. Nella pasta con le sarde i sapori si confondono, si coprono l’uno con l’altro, il finocchietto fa la guerra con la sarda, che fa la guerra con l’uva passa, che fa la guerra coi pinoli. E quella pasta si preparava proprio a San Giuseppe, a mischiare il sacro e il profano, la diceria e la scaramanzia. Quasi a insinuare… forse anche l’avvento dell’angelo su Maria… forse pure lì finì a pasta chi sardi“.