Sprofondo Rosso
Il film della sinistra siciliana in via d’estinzione. Le contraddizioni del Pd che dopo il flop salva la sua classe dirigente, gli errori di LeU e la “questione Epifani”, il rodaggio fallito di Ingroia e la gaffe di Potere al Popolo sul 41bis.
Quarantatrè anni fa usciva nelle sale cinematografiche italiane Profondo Rosso, il capolavoro di Dario Argento, il film che più e meglio di ogni altro della sua produzione da paura ha i requisiti dell’indimenticabile. Niente era sbagliato in quel film, l’atmosfera non era gotica ma quasi, le facce azzeccatissime dalla prima all’ultima, effetti speciali semplici ma terrorizzanti, la musica dei Goblin, sovrapponibile per carica emotiva alle scene del film, metteva i brividi già a sentirla ad occhi chiusi.
Ora, a volte, le coincidenze sono tali da pensare davvero ad un destino beffardo. La rievocazione di Profondo Rosso arriva quando qui in Sicilia volano gli stracci per quel poco di rosso (o roseè che dir si voglia) che è rimasto dopo l’onda gialla dei Cinquestelle che ha seppellito sogni, speranze e destini del fronte progressista siciliano.
A dire il vero qualcuno è riuscito a tenere la testa sopra il livello della melma. Prendiamo il Pd, per esempio. La classe dirigente che sarebbe l’imputata principale di un prevedibilissimo tracollo la troviamo invece compatta a Roma. Si sono salvati dal disastro palermitano sia il sottosegretario Davide Faraone – da sempre al centro del cuore di Matteo Renzi – che il segretario cittadino Carmelo Miceli. E con loro, sia pure con qualche brivido, anche Fausto Raciti, il segretario regionale del partito. Buon per loro, anche se vista dall’esterno la riduzione da 25 parlamentari dell’ultima legislatura ai 6 attuali suona come una condanna senza appello.
Altro che profondo rosso, qui siamo al rossissimo, anzi alla fine della riserva se si considera che è risultata vano persino l’intervento di Leoluca Orlando a cui non è riuscita l’operazione – premio per Fabio Giambrone.
Anzi, nel collegio del braccio destro del sindaco i Cinquestelle hanno piazzato la doppietta (due eletti) e ottenuto il triplo dei voti. E stiamo parlando di Palermo centro, il cuore della borghesia del capoluogo, la roccaforte dell’orlandismo duro e puro.
E vogliamo parlare di Liberi e Uguali? Operazione pretenziosa, sostengono in molti, forse mal pensata, sicuramente mal gestita. La bocciatura di Piero Grasso e del progetto che ruotava attorno a lui è la conseguenza, almeno in Sicilia, anche di una certa disaffezione derivata da liste ritenute poco aderenti al territorio. In altra parole candidati calati dall’alto. E non ha torto Claudio Fava a richiedere a gran voce le dimissioni di Guglielmo Epifani che è venuto in Sicilia a sottrarre uno dei pochi posti a disposizione dei siciliani.
Come è andata ad Antonio Ingroia lo sappiamo tutti, il suo cartello in difesa della Costituzione che intendeva smarcarsi dalla sinistra ortodossa ma la cui matrice left è innegabile ha raccattato meno di 5.000 voti. Si diceva, la tornata del 4 marzo è quasi un rodaggio in vista dei futuri impegni elettorali, ma se sono questi i risultati forse è meglio tornare in officina a rivedere il motore dell’operazione.
Chiusura dedicata a Potere al Popolo. Dopo il naming, vintage ma suggestivo, poco altro è sembrato azzeccato. Hanno voluto marcare la diversità dal resto della sinistra, cosa assolutamente comprensibile. Lo è meno, specie in Sicilia, auspicare l’abolizione del 41bis, al di là delle ragioni di fondo che possono essere condivisibili. La politica – e non solo oggi nell’era dei social – è fatta di messaggi, emozioni e tempismo: di questi tre fattori non ce n’è stato uno di supporto alla già improba missione.