“La cura all’Anticristo è tornare a pensare con la propria testa”: Enrico Ruggeri racconta il ritorno dei Decibel

L’Anticristo. Si chiama così il nuovo album dei Decibel, Enrico Ruggeri, Silvio Capeccia e Fulvio Muzio. L’anticristo non è qualcosa di demoniaco, ma semplicemente la chiara strategia di portarci all’appiattimento e alla totale assenza l’uno per l’altro di rispetto e amore. È questo lo scenario che nonostante il negarlo con atteggiamenti di facciata e di ostentazione, rischia di presentarsi con subdola veemenza.

L’album dipinge un mondo in dodici ritratti canori. Si inizia con un coro quasi da musica classica, per andare alla canzone che dà titolo all’album, per passare dalla vita virtuale ormai affermata e conclamata che conduciamo, all’amore che si perde in sostanze varie, al potere bancario che fa confondere su chi siano i veri ladri. Si passa alla desolazione cittadina, alla solitudine urbana tanto travestita e travisata, fino all’annullamento di chi decide nella disperazione di essere diverso di farla finita. Si arriva alla celebrità cercata per un quarto d’ora ovunque, dai social fino alla tv. E si termina descrivendo quanto lontani siano i disagi per una società evoluta come la nostra, rispetto a molto tempo fa, al bruciarsi facilmente sull’altare del giudizio e del pregiudizio. Fino ad una malinconica e stanca buonanotte d’amore faticoso.

I Decibel e il loro nuovo album, L'Anticristo, che punta il faro sulla realtà di questi anni: ne parliamo con Enrico Ruggeri

Ne parliamo con Enrico Ruggeri, capitano di lungo corso della musica italiana d’autore. Artista poliedrico, scrittore, presentatore. Ma soprattutto cantautore. Da qualche anno nuovamente nel progetto Decibel.

Enrico, partiamo da dove tutto questo ha lasciato una traccia di protesta discreta ma ferma, la pietra da scagliare all’anticristo, se vogliamo. Siamo durante la serata dei duetti, A Midge ure, ex ultravox che ha ridato lustro e nuova vita alla band, non funziona la chitarra. E tu, come dice la rivista Rolling Stone, fermi tutto con un gesto paragonato all’uomo che ferma ferma il carrarmato a piazza Tienanmen, esclamando “cosa l’abbiamo fatto venire da Glasgow, se poi non lo si sente?“. Dì la verità, questo Sanremo lo avete vissuto con un divertimento e una leggerezza diversi dagli altri. Ma anche un far capire quanto voi suonate davvero dal vivo, con le zanne in fuori.

I tecnici hanno fatto i salti mortali e bene, in migliaia di situazioni e purtroppo con noi sono rimasti con il cerino in mano. Mi rendo conto di avere fatto qualcosa di irrituale nella sacralità a volte esasperata del festival. Se si considera che l’ultimo fu Celentano con “chi non lavora non fa l’amore”. Ho detto una battuta per sdrammatizzare, anche se qualche giornale ha scritto che ero furibondo, ma non era così.

La canzone Lettera dal duca è come hai detto anche un inno all’allontanarsi, al prendere le distanze dalla banalità. Che emozione vi ha dato “rivivere” Bowie? Per intenderci, tempo fa in “quando sogno non ho età” dicesti che avevi l’impressione di scrivere quasi guidato, qui è stato così?

Sì, finisco spesso canzoni in uno stato di estraniamento quasi totale. Bowie mi ha dato una forte emozione con suo album Black Star, che la Sony mi aveva mandato in anteprima, pensa un po’ due giorni prima della sua morte. Faccio fatica a sentirlo, mi dà sempre emozioni pensare che di lì a poco non sarebbe stato qui. Bowie è stato il re del distacco dalle cose terrene e dall’effimero. Anche da se stesso, quando ottiene il successo planetario con Ziggy Stardust. Parte, va in America, la conquista e poi va a Berlino, con Bryan Eno e Iggy Pop, per fare gli album berlinesi. Tante volte fuggiva da quello che aveva costruito. Una bella lezione di autonomia intellettuale. Ma è riuscito a fuggire dalla morte, non ha voluto un funerale. E poi fare un ultimo album con la consapevolezza che non ci sarebbe stato di lì a poco, dà l’impressione che una sua parte fosse già dall’altro lato. La nostra canzone è molto più che parlare solo di Bowie, è sul distacco delle anime.

Curioso che questo modo di intraprendere un nuovo percorso appartenga molto anche a te, se non sbaglio anche tu hai a volte intrapreso processi creativi e artistici, per poi andare a tentare qualcosa di ulteriormente coraggioso.

Sono uno che rischia e fa quello che si sente. Per me è un dogma, sono curioso e accetto progetti audaci, facendo anche errori, come alcune cose televisive che non rifarei.

Ed eccoci all’Anticristo, un album che fissa questa epoca, che sceglie di andare dal prog ai ritmi anni 90 alla ballad rock, ma con contenuti. Da “my acid queen”, che sa di autobiografico, a “sally go round”, entrambe espressioni introspettive di anime contorte, ma anche potere bancario, città che donano solitudine, il pregiudizio che brucia chiunque, rime che non è facile trovare, ma che da te sappiamo essere frequenti, tu sei quello del pavet usato due volte, del do ut des e adesso della rupe tarpea. Possiamo dire che in questa epoca di appiattimento musicale e di testi, avete deciso di dare un calcio sotto il tappeto e far uscire tutto il marcio travestito di lustrini e benessere?

La filosofia del disco sembra rivoluzionaria, ma è semplicemente lavoro sul campo. Niente tastiere virtuali e campionamenti al pc, noi abbiamo iniziato con le tastiere, suonando precise tastiere con nomi e marche, la chitarra è chitarra, Fender, impugnata e suonata, poi suonare insieme le canzoni fino a che non si è pronti per registrare, facciamo i dischi come si facevano anni fa. Il disco è un occhio a molti stili, come Blondie, il punk che faceva ballare, canzoni ballad sul tormento di star male con e senza una persona, che non dà pace. Io amo la lingua italiana ed è un peccato buttare via decenni di tradizione per trovare rime banali. Il successo di una canzone oggi è determinato da fattori che purtroppo spesso con il valore artistico hanno ben poco.

C’è chi ha definito questo album snob, ma di uno snobismo positivo, per intenderci, quasi il labbro all’insù di chi non ne può più di sapere come vanno le cose, ma piuttosto che stare sull’eremo preferisce pennellare questa realtà. Sposi questo tipo di definizione?

Mi fa piacere e molto, è un album non per tutti. Purtroppo è la verità. Non per tutti che potrebbero farlo e per molti che potrebbero ascoltarlo. Spero arrivi alle persone a cui devo arrivare e sembra che stia andando come mi aspettavo.

La reunion dei Decibel ha avuto vasta eco ed è stata accolta in maniera positiva. E pensare che Fulvio Muzio e Silvio Capeccia avevano intrapreso percorsi professionali che non avevano la musica in primo piano.

I Decibel e il loro nuovo album, L'Anticristo, che punta il faro sulla realtà di questi anni: ne parliamo con Enrico Ruggeri

In verità loro hanno fatto molti album di musica ambient, per mostre, addirittura per psicoterapia. Il mio timore è che stiamo tornando al medioevo, cioè le cose belle le possono fare solo quelli che non hanno problemi economici, per cui hanno una libertà mentale. Loro non avendo pressioni creavano liberamente. Il figlio di una classe operaia deve fare una resistenza votata alla sopravvivenza che purtroppo sembra limitare il talento.

Qualche album fa, parlavi di pietas, adesso cosa pensi in questa nuova fase consapevole del mondo che ti circonda?

C’è sempre, attenzione verso i deboli in tanti sensi, anche i fragili di sentimenti. Sto attento alla spettacolarità delle storie che mi circondano.

Qualche giorno fa hai fatto un richiamo alle armi per i tuoi fan, ringraziati anche nell’album, non compreso da tutti, era un modo per dire di fare ognuno la propria parte perché questo progetto ha anche bisogno di noi, del nostro possibile, è un modo per resistere e sperare che la musica con contenuti non sia di nicchia?

Era una cosa mirata, c’è un mondo di chi segue un cantante, che è anche abbastanza umano attenzione. Pure io ci sono rimasto male quando tutti ascoltavano Bowie e invece all’inizio eravamo una elite. Una pulsione che purtroppo è incompatibile con l’odierno. Essere contenti se io vado a suonare da qualche parte e sono in pochi, così non devono dividere il palco e il cantante con nessuno, è una strada non percorribile. Deve esserci un atteggiamento diverso da parte del rapporto. A volte mi amareggiano alcune frasi di chi si rivolge a me. Questo credo sia stato esasperato dai social, il posto dove tutti sanno tutto. Milioni di persone che dicono tutto di tutto. Una stortura, di questi tempi. Che uno mi scriva come devo arrangiare i dischi non va bene, perché può scrivermelo chi arrangia dischi, stessa cosa sulla politica di distribuzione dei miei concerti, non dico nulla nemmeno io, lascio fare al mio manager, perché se qualcuno monta il palco o fa il service, io non ho competenze per insegnare, al massimo posso dare un consiglio. Gente che ti chiede spiegazioni sulla tua vita privata e sulle tue scelte artistiche. Ci sono cantanti che tagliano teste da un giorno all’altro e nessuno dice nulla, oppure cantanti che fuggono dopo il concerto e poi sono trattati da star eteree. Chiedermi una spiegazione solo perché ci siamo parlati, francamente mi fa fare domande.

Tu quanto hai coscienza di essere un po’ una memoria storica della musica italiana, una pietra miliare, avverti questo peso misto ad onore?

Avverto la responsabilità di aver fatto album che restano e musica che resta. Il primo album dei Decibel ha venduto pochissimo, ma per quei pochi c’è chi ha fatto una band, c’è chi ha iniziato a suonare, sono tracce che poi restano, come negli album successivi. Dove poi è iniziato il percorso.

Ci vuoi raccontare il “mistero” di aver fatto la foto a Sanremo con Fabrizio Moro? Oltre che ovviamente con Ermal Meta con cui sei in ottimi rapporti.

Qualche mese prima ci fu una polemica su un tweet in cui scrissi di un artista che non mi aveva risposto al saluto. Molti pensarono fosse Fabrizio e si innescò una discussione sul nulla. L’ho cercato, gli ho raccontato tutto e gli ho detto di farci una foto.