Piersanti Mattarella, il presidente diverso che non ha avuto eredi
Le redazioni dei giornali avevano (hanno) alcune regole simile alle caserme, ispirate ad una certa dose di nonnismo e a quel retro pensiero a volte sadico che soffrire aiuti a diventare grandi. Motivo per cui ai più giovani – e vi risparmio quell’odioso appellativo di biondini che li individuava – erano riservati i compiti meno nobili, i turni più disagiati, le reperibilità festive. Questa premessa giustifica il motivo per cui il sottoscritto, allora cronista di sport talvolta prestato alla cronaca comunale e saltuariamente alla politica, si trovasse di turno e solitario la mattina del 6 gennaio del 1980. Il giorno in cui fu ucciso Piersanti Mattarella.
La redazione era quella di Telesicilia, all’epoca una delle prime tre emittenti private siciliane che a Palermo si contendeva la leadership con Trm. E per dare una dimensione delle gerarchie nel mondo dell’informazione regionale è opportuno ricordare che oltre al Giornale di Sicilia, forse nel periodo di maggiore diffusione a Palermo, lo schieramento cartaceo prevedeva anche il L’Ora e il Diario le cui vendite raggiungevano meno della metà degli ascolti che faceva Telesicilia, il cui notiziario era più che competitivo anche al cospetto di quello di Rai 3.
Ma torniamo al 6 gennaio del 1980, la notizia mi arrivò non dai canali professionali, né dalla consueta radio sintonizzata sulle frequenze della Squadra Mobile, bensì da una mia compagna di classe la cui cugina era la fidanzata di Bernardo, il figlio di Piersanti.
Allora non c’erano telefoni cellulari, non tutti avevano il cercapersone, ma come in tante altre occasioni l’operatore Nino Di Cara non fallì l’appuntamento. C’erano le immagini a corredo di quelle poche informazione raccolte sul posto, il profilo politico di Mattarella non era difficile da scrivere, al filone delle indagini ci avrebbero pensato successivamente i colleghi che si occupavano di nera. La parola chiave di quell’inesperto resoconto fu mafia, la sensazione che mi portai dentro per parecchio tempo fu lo sgomento, per tanti motivi.
L’uccisione di un giudice, di un sindacalista o anche di un giornalista in Sicilia, a quel tempo, quasi non destava scalpore, si poteva considerare tra i rischi del mestiere. Ma il presidente della Regione, democristiano e per di più con quel cognome… C’era tutta la sfrontatezza della mafia in quei colpi di pistola sparati in via Libertà e c’era l’anomalia di quel presidente che alle regole di una certa Dc si era sottratto, togliendo interlocuzione alla mafia, allevando una nuova generazione di giovani politici cattolici, scegliendo il più accidentato percorso per fare politica nel Palazzo del potere. Mi ha sempre colpito una frase di Leoluca Orlando, uno degli apostoli di Piersanti: “Ci ha regalato la grande opportunità di fare politica senza sporcarci le mani“. Sintomatica del contesto e del binomio tra politica e malaffare, tra una consistente parte della Dc e la mafia.
E pesò poco il corredo di pettegolezzo che ha sempre accompagnato la fama di Bernardo Mattarella, il capostipite, a cui si sono attribuiti contatti con ambienti non proprio raccomandabili ma sempre con un tono di voce vellutato. Mai una denuncia o un attacco frontale, ma senta chi vuole sentire. Mattarella senior è stato il nostro John Kennedy: gli si attribuiva una vita “altra” nei corridoi e non nelle aule di giustizia. Di certo il padre non fu scudo del figlio e neanche carnefice. Nel senso che mai si disse che Piersanti avesse pagato il carico di aspettative non rispettate, come per esempio nel caso dell’uccisione di Salvo Lima.
Nella fine di Piersanti c’è qualcosa del martirio, la consapevolezza del rischio, se non addirittura la matematica certezza, che superare alcuni limiti in quella Sicilia significava scrivere la propria condanna a morte. A prescindere dal cognome che si portava.
È triste dirlo e anche impopolare, ma non si può negare che certi omicidi di mafia hanno avuto un peso diverso da altri. Falso che i morti siano tutti uguali, uguale deve essere la capacità dello Stato di garantire giustizia e l’impegno nell’assicurare la ricerca dei colpevoli. L’omicidio di Piersanti Mattarella, il presidente con le carte in regola, resta impresso nella memoria dei siciliani, eclatante quanto quello di Giovanni Falcone, di Boris Giuliano, di Libero Grassi, di Paolo Borsellino, di Pio La Torre o di Rocco Chinnici. La mafia che ammazza per togliere di mezzo una persona scomoda e per mandare il suo macabro avvertimento, quasi una funzione pedagogica dell’ammazzatina.
È forse ingeneroso sostenere che la storia di Piersanti abbia poco ispirato i suoi successori, ma un dato è certo: non ci si riduce ben oltre il limite del fallimento, con un buco di miliardi di euro, senza un soldo da investire e con il futuro ipotecato, se non si è considerata la Regione il più generoso dei bancomat a cui fare ricorso per favorire interessi parziali o per cercare consenso personale. Motivo per cui, oggi, nel giorno dell’Epifania, più di un politico che ha varcato i Palazzi della Regione, anche a distanza di 38 anni dovrebbe avvertire quanto meno un senso di vergogna per non avere saputo neanche onorare la memoria di un presidente che per avere scelto di essere diverso non ha perso la poltrona ma la vita.