Uno che fabbricava magliette
Allora avevo neanche 16 anni e ora ne sono passati cinquanta. Ne ho seppellite di bandiere, tante foglie del mio albero genealogico si sono ingiallite o sono volate via al primo refolo di Maestrale. Troppe cose sono invecchiate con me, da molti miti a un po’ di vino. Ma il Dorian Gray della mia vita si chiama Ernesto Guevara, detto “il Che”.
Il Che che ho amato io è quello che, prima che tutto accadesse, ha girato in lungo e in largo il Continente latino americano sulla sua inglesissima Norton 500, una moto di culto per gli appassionati. Viaggiava con lui il suo bisogno di conoscere, di vedere le cose coi suoi occhi prima di leggere il Manifesto (quello di Mark e Engels) o Stato e Rivoluzione di Lenin.
Il Che era medico. Curava le persone fino al crudele paradosso del convincersi che per curarli meglio bisognava uccidere altre persone. La Legge della Rivoluzione che, come disse qualcuno, non è un pranzo di gala.
A Cuba fu pure ministro ma ‘sta cosa non gli piacque nemmeno un poco e se ne tornò nella giungla a fare il suo mestiere, fucile in mano.
Troppo epico? Ma no, troppo vero. Anche perché sbagliò. In Bolivia i campesinos in nome dei quali aveva preso le armi contro la dittatura, erano piuttosto conservatori e non lo aiutarono tanto quanto si sarebbe aspettato.
E rimase solo con un grappolo di uomini fino all’agguato mortale. Quello che secondo i coltivatori di miti, fu il coronamento di un turpe tradimento reazionario. Non fu forse così anche coi 33 denari di Giuda?
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