Sbarca a Roma la cucina del cuore di Nino Graziano
La semplicità è la qualità dei fuoriclasse. Ed è stata la chiave del successo di Nino Graziano, lo chef siciliano più celebre nel mondo. La semplicità assieme alla capacità di lavorare 14 ore al giorno, di provare un piatto mesi e mesi sino a raggiungere la declinazione voluta, di non spegnere mai la fiammella che alimenta la curiosità. La sua è sempre stata una cucina che pesca nella memoria ma che sa tradurre il ricordo in un nuovo spartito.
Graziano non è stato il primo cuoco stellato in Sicilia, ma le sue stelle sono state contagiose, hanno attivato un circuito virtuoso che ha consentito alla cucina siciliana di uscire fuori dalla dimensione della trattoria e di affrancarsi dai vari tentativi di imitazione della nouvelle cuisine francese. Il suo Mulinazzo di Bolognetta ha tracciato un percorso che i vari Sultano e Cuttaia hanno saputo capire e reinterpretare. Graziano ha dato luce e dignità ad un intero settore, ha rappresentato per la cucina siciliana ciò che Diego Planeta è stato per il vino. Un punto di svolta.
Non è un caso che i due si sono a lungo annusati prima di scoprire una sintonia insospettabile. Lo stile sarà diverso, ma passione e dedizione al lavoro hanno smussato le rispettive asperità caratteriali. Nino Graziano come Diego Planeta coltiva la sua anima siciliana anche nel gelo della Russia, seconda e accogliente patria alla quale ha dedicato l’ultimo decennio abbondante della sua vita. La Sicilia è il pensiero quotidiano ed è ciò che ha ispirato il suo ritorno in Italia.
Roma ospita da poco più di un mese l’Osteria Siciliana, il suo nuovo ristorante, una sorta di ambasciata del gusto dell’isola in cui ripercorre gli anni passati dietro ai fornelli.
“Non ne potevo più di vedere spacciare per cucina siciliana qualcosa di offensivo per la nostra tradizione – spiega Graziano -. Una vera e propria parodia al limite dell’insulto. Per anni abbiamo avuto a che fare con autentici dilettanti”.
A parlare non è l’imprenditore ma il cuoco siciliano. Irritato, per usare un eufemismo.
“Ho la sensazione che in realtà in una città come Roma, tra le più visitate al mondo, non sappiano realmente cosa sia la cucina siciliana. Se vai al mercato a comprare il finocchietto magari ti danno l’aneto e non è proprio la stessa cosa per fare la pasta con le sarde. Ecco, per me questa nuova avventura è soprattutto un’operazione di tutela della cultura gastronomica siciliana. E poi, se mi permettete, è un regalo che ho voluto fare a mia moglie che da tempo mi chiedeva di ritornare a lavorare anche in Italia”.
E allora via con il menù…
“Di base proporremo una selezione di 15 piatti al massimo, variando secondo le stagioni. Non mancherà la pasta al forno, ma cunzata, come la faceva mia nonna: ragù, formaggio, uovo e prosciutto. Ovviamente la pasta con le sarde ma anche il macco di fave in minestra, il cacocciolo attupato in umido, il tonno con piselli e menta e il gelo di mandarino. La cantina sarà al 50% siciliana, valorizzeremo il nero d’avola e il nerello mascalese. Di francese solo gli champagne”.
Una posizione di privilegio, in via del Leoncino, proprio alle spalle di Fendi, in zona Condotti: 35 posti in sala e 20 nel dehor, la possibilità di degustare 4 piatti spendendo tra 50 e 60 euro. Una sfida delicata, proprio perché dopo anni di successi all’estero, Graziano torna a giocare sul terreno amico, generando grandi aspettative che si traducono in grandi responsabilità.
“Dopo 40 anni di cucina non posso aver paura, ma sarei un bugiardo se non ammettessi emozione e orgoglio, per esempio, quando servo i tenerumi e spiego al cliente cosa sta mangiando. Mi sento come se lo stessi ospitando a casa mia e tutti noi siciliano sappiamo il significato dell’ospitalità”. Tra i grandi miti della cucina italiana contemporanea pochi sono quelli che non hanno avuto il privilegio di provare i suoi piatti: da Bottura a Cracco, da Alajmo a Scabin. È una testimonianza di affetto e il riconoscimento del valore. E Graziano a sua volta, quando scende in Sicilia, non perde l’occasione di testare i suoi “eredi”.
“Ho un debole per Tony Lo Coco de I Pupi di Bagheria, seguo con attenzione Gioacchino Gaglio del Gagini e Sarah Bonsangue de I Cucci, entrambi di Palermo e Martina Caruso del Signum di Salina. Mi riferisco, ovviamente, solo agli emergenti, ormai il livello si è alzato in maniera straordinaria rispetto a qualche decina d’anni fa. Oggi c’è una vera e propria scuola siciliana formata da Cuttaia e Sultano, Craparo, Ruta, Candiano, Mantarro e tanti altri ancora”.
C’è chi dice che nei suoi confronti dovrebbero avere tutti un debito di riconoscenza.
“Non so se sia così, è vero che il Mulinazzo ha attirato l’attenzione della critica nazionale e da allora niente è stato più come prima. Il segreto è che finalmente si è entrati in cucina con l’idea di esaltare tradizione e prodotti della nostra terra. Si cucina con il cuore e non solo con la testa”.
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