“Riina muoia in carcere”

Le dure parole di Sonia Alfano contro la Cassazione : “È meglio che lo Stato taccia. L’ergastolo prevede che si muoia da detenuti e non dimentichiamo di chi si tratta. E poi perché riservargli un destino diverso da Provenzano? Non posso perdonare chi ha ucciso mio padre. Se lo Stato si esprime così non ci prenda in giro con le commemorazioni di Falcone e Borsellino…”

“Se queste sono le parole dello Stato è meglio che taccia”. Sonia Alfano non usa mezze misure per contestare il pronunciamento della Corte di Cassazione volto ad assicurare una morte dignitosa a Totò Riina, l’86enne Capo dei capi, malato in maniera grave.
“È inaccettabile che un organo dello Stato si esprima in questo modo. C’è una sentenza definitiva che parla di carcere a vita e che presuppone che si muoia in carcere. Ci si deve assicurare che il detenuto Riina abbia le cure più opportune ma all’interno del regime carcerario. La Cassazione dimentica che molti detenuti muoiono in carcere, non credo si possa entrare nel merito su chi è il detenuto. Nel caso specifico si tratta di uno stragista, capo riconosciuto di Cosa Nostra, uno che non si è fatto scrupolo di far morire in maniera poco dignitosa i nostri cari. E del resto perché riservargli un destino diverso da Bernardo Provenzano che morì da detenuto?”

Sonia Alfano non ha mai perdonato i killer che nel 1993 uccisero suo padre, Beppe, cronista di Barcellona in prima linea contro la criminalità organizzata.
“Perdonare non si può, è una ferita che non si rimargina e che proprio lo Stato, con questi comportamenti, contribuisce a riaprire volta per volta. Io avrei voluto che mio padre vedesse crescere i miei figli, li vedesse laureati, lo avrei voluto accanto nei momenti più gioiosi della mia vita e nelle difficoltà . Lo hanno ucciso delle bestie ma provo più dolore quando sento che lo Stato che dovrebbe proteggerci si preoccupa del dolore dei carnefici. Allora che non ci si prenda in giro con il 23 maggio e il 19 luglio e con tutte le commemorazioni per Falcone e Borsellino. Noi che abbiamo perso per mano mafiosa i nostri cari preferiamo il silenzio”.


Si può comprendere l’amarezza di Sonia Alfano, la sua freddezza, la mancanza di pietas. La mafia le ha segnato l’esistenza portandole via con spietata violenza il padre. Secondo Sonia le bestie, come ancora oggi chiama gli assassini, non meritano compassione, almeno non quella dello Stato.
E quì, con tutto il dovuto rispetto per il suo dolore e per quello di tutti quelli a cui la mafia ha rubato un pezzo di cuore, le strade della comprensione divergono. È legittimo il suo non perdono come più che giustificabile l’atteggiamento dello Stato che in questo caso più che perdonare mostra il rispetto per l’umana condizione. Perché lo Stato è diverso dalla mafia. E questa consapevolezza, Sonia, diventa anche la sua vittoria.